sabato 17 marzo 2012

Sono ciò che...


Cartesio era partito con un "Penso, quindi sono". La domanda successiva ovviamente è "sì, ma cos'è, che sono?". Feuerbach ha provato a dire "sono ciò che mangio" ma sul menù si è scatenata una rissa e la cosa è finita lì. Il problema dell'identità è fondamentale, qualcuno non ce la fa, a farsene una e così se la fa prestare dalla famiglia, dalla società, dalla nazione cui appartiene. Dirà allora "io sono una Mamma!" oppure "io sono un avvocato!" o anche "io sono un Americano!" ma questo non significa affatto avere una identità. Significa aver delegato ad altro, fuori di sé, ciò che si è. Il che è un problema perché se poi all'improvviso l'avvocato perde il lavoro e la posizione sociale, se i figli crescono, salutano tutti e vanno giustamente a viversi la loro vita, a quella persona cosa resta? Sarà per questo che quando qualcuno mi dice "sono un Geometra" o "Sono un Idraulico" a me viene da ridere perché trovo buffo che si confonda ciò che si fa con ciò che si è. La vita è fatta di trasformazioni, riflettevo in questi giorni, mentre la morte è assenza di movimento. Tra questi due opposti la vita umana. E mi veniva da pensare che si comincia ad invecchiare nel momento in cui si smette di cercare il cambiamento, la novità, l'esperienza. Conosco persone della mia età ormai incastonate nelle concrezioni delle loro certezze, persone che hanno deciso una volta per tutte cosa è giusto e cosa sbagliato, cosa fa bene e cosa fa male, cosa ascoltare, cosa mangiare e via discorrendo. Poi penso a mia zia che a settantasei anni mi chiede in regalo per il suo compleanno un computer, che vuole imparare a scrivere col Word Processor che lei ha sempre usato la lettera22 e questa rivoluzione mica vuole perdersela. E penso che lei era una ragazzina, al confronto. Meglio farsela robusta, una identità, ma essenziale, senza fronzoli, che se uno perde il lavoro o la posizione sociale o qualsiasi altra cosa, per doloroso che possa essere, mica perde se stesso. Quindi leggo il post di Gipi su quello che è capitato a Michele Serra, e la mia riflessione è stata che forse si è avverato quello che teorizzava Pasolini: il consumo ha sostituito la religione. Prima molti cercavano una identità nel credo, e dicevano "sono un Cristiano" oppure "sono un Musulmano" o anche "sono uno Shintoista, cazzo!" ma oggi al di là delle esternazioni di facciata, in occidente, sono pochi a identificarsi nella religione. E non perché siano andati perduti dei fantomatici valori che nessuno ha mai capito quali fossero (che poi, tutti i politici che si lamentano che si son persi i valori, secondo me è perché si volevano arraffare pure quelli), ma perché oggi non si crede se non per osmosi, assorbendo passivamente una cultura ed un pensiero che pur intriso del veleno cristiano ormai se ne emancipa al punto che oggi, in italia, esiste una larghissima maggioranza di protestanti del tutto inconsapevoli del fatto che il loro stile di vita e la loro idea di religione non abbiano più nulla a che vedere col cattolicesimo, senza neppure che questo rappresenti una svolta perché avviene senza alcuna coscienza di sé ("sono cattolico non praticante" "sono cattolico ma non credo nella chiesa" "sono cattolico ma non credo nell'infallibilità del Papa" significano solo che NON sei cattolico, al limite sei protestante, chiaro?). Sarebbe molto bello poter dire che oggi non si crede più perché si mette l'identità umana al centro di se stessi e dei rapporti con gli altri, ma non è così. Oggi non si crede perché oggi si consuma. L'identità che prima affidavo ad una chiesa, oggi me la scelgo su internet, me la pago coi debiti mastercard, la affido ad una marca ad un modello ad un jingle, oggi uno domani un altro. Quindi succede che qualcuno si senta offeso da chi critica Twitter, perché Twitter è la sua scelta di consumatore e quindi lo rappresenta, diventa parte della sua identità. Il rischio di definirsi in base ai consumi è terribile e la possibilità che questo stia già avvenendo, altissima. "Io sono un tipo Nike/Hilfiger/McDonalds/Dell/Buell e tu? Io sono più una ragazza Blahnik/Zara/Sushi/Dahon. Allora nulla da fare". Da consumatori a prodotti il passo è brevissimo. E definitivo. Meno male che c'è ancora la speranza. Pochi giorni fa guardavo un documentario, "Devil's playground", sulla vita di alcuni giovani Amish nel momento in cui, a sedici anni, vengono allontanati da casa e dalla comunità in cui hanno vissuto tutta la loro vita, per vivere un periodo da persone "normali" e poi scegliere se rientrare e battezzarsi oppure no. Se scelgono di non rientrare, sono di fatto come morti. Il 90 percento di loro rientra e vive la vita che altri hanno scelto per loro. Ma c'è una ragazza, in quel video, che molla tutti e nonostante perda la casa, i fratelli e i genitori, nonostante questo le faccia male, ha le palle di farsi la sua vita, la sua identità, le sue scelte, inseguire il suo sogno di andare finalmente al college, vivere come ritiene di fare, liberamente. Ed è una cosa bellissima. È una cosa giusta. Scaricatelo, se vi capita, tanto in televisione non lo vedrete mai.

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